mercoledì, ottobre 10, 2012

La provvisoria adozione dell'infinito



Metti a bollire do chili de patate intere.
Le tiri su, gli levi la buccia e le passi col passaverdura, 
che vien fuori come tanti vermetti. 
Antonia, Ricetta perfetta degli gnocchi perfetti secondo Antonia [incipit].

I Nocken venivano dall’Austria profonda e ogni estate migravano miti verso il mare, dove mostravano al sole dell’Adriatico le loro pelli bianche e squamate, nuotavano con la canottiera e facevano il pieno di lentiggini.
I miei – tranne Antonia – trovavano che fosse un bene socializzare con i popoli di lingua tedesca, considerati portatori di civiltà, cortesia, strudel di mele e berretti di lana di fattura artigianale. La barriera linguistica? Mio padre sapeva come abbatterla: bastava un dizionario tascabile, e mettere tutti i verbi all’infinito.

I Nocken. Josef, padre. Anna, madre. Figli, 3: Marie, Max, Moritz.
Nel mese di agosto alloggiavano in una specie di ostello familiare simile alle case di villeggiatura sovietiche. Lì, mentre i miei prendevano nota della grazia spartana di quelle vacanze, Marie e i suoi amici mi intrattenevano con un gioco di carte fatto di topi finti e di schiaffoni sulle mani. Mi sembrava divertente come una barzelletta in lingua straniera.

Loro ricambiavano facendoci visita all’ultimo piano di un palazzone moderno in quella che era stata battezzata Lignano City, regno di fontane, luci e piano bar in stile rococò texano.
A Gorizia, invece, i Nocken si commuovevano davanti agli gnocchi al ragù di Antonia mentre mio padre snocciolava infiniti.

Giunse il momento di accettare il loro invito: cerimoniosamente espresso in una lettera in inglese, tedesco e italiano semplificato, tanto per stare sul sicuro.

Andare a Wartberg per festeggiare tutti insieme San Nicolò con la K. Inoltrarsi nell’Austria profonda, la culla imperiale ormai dimenticata dei nostri avi (mai arrivati più in là di Jesenice, dove il bisnonno ferroviere era stato confinato per schiamazzi sindacali).
Due notti. A Wartberg. E poi: tornare.

Partimmo una mattina d’inverno, abbandonando sulla soglia di casa un’Antonia imbacuccata e scontenta. Sospettava che al nostro ritorno le avremmo imposto con silenziosa efficienza uno stile di vita fondato sulla zuppa con i crostini e le vacanze fuori stagione.

Subito dopo il confine ci perdemmo. Mio padre pensava che fosse elegante piantare degli umlaut qua e là, e questo complicò la richiesta di indicazioni stradali. In un paesaggio sempre più innevato e spettrale Wartberg divenne di volta in volta Wärtberg, Würtberg, Wörtberg. Mentre si preannunciava il crepuscolo ed era ormai in corso una disperata mutazione in Wartbürg ci ritrovammo per caso nel posto giusto. Appena in tempo, perché dopo una breve democratica riunione di famiglia i Nocken avevano ormai deciso di rivolgersi al commissariato del luogo per denunciare lo smarrimento di una famiglia di italiani. Ben ghe sta, avrebbe detto Antonia, proprio ben ghe sta.

Fu deciso che avrei dormito nella camera di Marie. Che avrei giocato con Marie mentre Max studiava nella stanza accanto e i miei visitavano il moderno borgo con Anna, Josef e Moritz.

La casa era grande, silenziosa e profumata di brodo. Sul mio letto c’era un piumino rosso. Appeso al muro, un manifesto con la pubblicità di una banca che ritraeva due spennacchiati imitatori di Stanlio e Ollio.
A un tratto, senza motivo, mi venne in mente Antonia.

Marie tirò fuori i suoi giocattoli preferiti, le carte con i topi finti, un puzzle da 500 pezzi. Mi presentò l’albero di Natale, mi prestò le sue muffole, mi trascinò in giardino. Costruì un pupazzo di neve. Convocò Max per sondare i motivi della mia malinconia. Io respiravo a fondo l’odore di brodo, guardavo la neve fuori della finestra e inghiottivo le lacrime. Alla fine Marie e Max si arresero e sedettero muti accanto a me, sotto il poster dei finti Stanlio e Ollio, in attesa dell’ora di cena.

In quei giorni i miei visitarono scuole all’avanguardia, conobbero gente gioviale, sdrucciolarono sulle strade del vicinato. Avevano preso a profumare di vino speziato, mentre l’italiano di mio padre si scioglieva come neve fresca nelle giornate di sole sopra lo strato ghiacciato degli infiniti verbali.

L’ultima sera Anna ci annunciò radiosa che avremmo mangiato gli gnocchi. Lo gnocco era uno solo: grande, insipido e affogato in un brodo paglierino. Io pensavo ad Antonia, seduta davanti alla tv a sgranocchiare Ritz o ad allungare con l’acqua il Rosso Antico del mobiletto bar, e venivo travolta da una quieta nostalgia.

Seduta in macchina in attesa di partire, gli occhi socchiusi per tutta quella neve, pensavo al pallore dei Nocken, alla scomparsa delle lentiggini, allo gnocco in brodo, al piumino rosso e al poster sopra il letto.
Gentili creature di terra e di neve, i Nocken erano come una di quelle conchiglie in cui sembra di sentire il rumore del mare e che finiscono su uno scaffale a prendere la polvere finché un giorno d’inverno non le riporti all’orecchio per accorgerti che il mare non si sente più, e forse non si è sentito mai.

Sulla strada del ritorno telefonammo a casa.

***

Per un po' squillò a vuoto. Poi, al terzo tentativo, rispose la zia Maria. Quella che vedemmo uscire dalla cabina telefonica era una brutta imitazione, spettinata e livida, di mia madre.
"Porco dìs" disse mio padre a bassa voce mettendo in moto.

La casa era calda, profumata e tirata a lucido. Solo la cucina era sottosopra come la scena di un delitto. Mio padre raccolse un mestolo abbandonato sul pavimento. Il vapore ancora appannava i vetri.
"Sono pronta, andiamo" disse mia madre. Teneva stretto un borsone pieno di mutande e di camicie da notte. Ai piedi aveva ancora i doposci.

Antonia era parcheggiata al terzo piano, otorinolaringoiatria. Un dottore molto giovane e dall'aria spaurita aveva detto che ci sarebbero stati esami, accertamenti, ma che bisognava farsi coraggio.
"Vado sola" disse mia madre. La vedemmo allontanarsi lungo il corridoio e sparire dietro una porta.
Uscì un'ora dopo.
Piangeva.
"Porco dìs" sospirò mio padre.

Antonia era stesa sul letto, immobile, gli occhi spalancati. Quando vide mia madre le fece cenno di avvicinarsi, serrò le labbra e coprendosi gli occhi con la mano scoppiò in singhiozzi.
"Perché non hai mai detto niente?" chiese mia madre.
"Uiuiuiuiuiui" fu la risposta in falsetto.
"Per tutto questo tempo."
"Il gnocco, Lina" sibilò Antonia. "Il gnocco. Uiuiuiui."
Fu a quel punto che mia madre si accorse che Antonia non piangeva.
Rideva.

***

Dopo che vi ho salutati e ho visto la macchina che spariva dietro la curva ho chiuso il portone e son tornata su per il vialetto, così, senza premura, con le mani nelle tasche della traversa. Nel mentre che passavo vicino alla casa delle Debegnak ho visto le finestre aperte e allora ho pensato che la Maria aveva brusà la frittata e aveva aperto tutto per lasciare andare fuori la spussa, così ho tirato il collo per guardar dentro e infatti ho visto una gran fumera da per tutto, ma la Maria non si vedeva da nessuna parte. Dopo un po' di tirar il collo son tornata a casa. Ho detto adesso faccio le pulizie, adesso faccio profumar tutta la casa, però prima metto su un bel disco. Ho messo su "Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera, è primavera. Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera l'ora dell'amor!". Sebben che era inverno. Adesso faccio profumar tutta la casa, ho detto, mica come la Maria che impussa tutto. E dopo mi faccio un pranzetto squisito. E dopo il pranzetto un bel caffè, perché mi son una gran caffettona. Un caffé e un Mon Chéri. Due. Due Mon Chéri.

Mi me diverto sempre a guardare la Maria che fa i lavori in giardino, in special modo quando sale sui alberi, come quella volta che è cascata dal caco. Ma certe volte la Maria sta dentro casa con la Graziella che fa andare la Singer tutto il giorno e la cagna che dorme. Allora si mette alla finestra a guardarme a mi. In realtà femo finta de far altro, de guardare il giardino. È come la guerra de trincea. Femo il 15-18. Ogni tanto la Maria si allontana, per esempio va a prender un bicchiere d'acqua, e allora anche mi faccio una pausa, e torno magari con una tazza di cacao. E così anche quel giorno ho guardato un poco la Maria, finché ha fatto scuro, e dopo mi son messa a guardare Avventura. Giusto per aspettare l'ora de cena, perché a mi i documentari sui vulcani e gli animali feroci, in special modo il leone che corre dietro alla bestiolina, me fa tanta fame.

L'ultimo giorno mi son alzata presto e ho fatto tutti i vetri e ho passato sui mobili il Fabello. Poi mi messa in poltrona, comoda come un papa. Dopo un po' ho detto: faccio i gnocchi. Per voi. Allora son andata al mercato a comprar le patate e i ovi, e ho detto adesso me li godo proprio 'sti gnocchi. Per voi.
Così mi son fatta un bagno con la schiuma e mi son coperta tutta de borotalco. E dopo son andata in cucina, ho fatto un bel caffè, perché mi son una gran caffettona, e ho messo la traversa pulita coi fioretti blu. Le patate era bone, proprio quelle giuste, né troppo farinose né troppo acquose.

I gnocchi i faceva una bella figura, tutti in fila sul strofinaccio come tante conchigliette. Allora ho fatto bollire l'acqua e li ho buttati dentro. Quando son venuti su ho detto aspetta che ne assaggio uno. Avevo lasciato aperta la porta di casa, e proprio quando ero lì col gnocco bollente che lo facevo saltar nella bocca ho sentito un rumore, mi son girata e ho visto la Maria immobile come una morta, con le man sui fianchi. Ho pensato che la Maria era venuta giù dal caco un'altra volta e aveva battuto la testa e adesso veniva a trovarme a mi. Invece di sputare il gnocco l'ho mandato giù. Maria Vergine. E son cascata per terra.


Ho aperto i occhi al Pronto Soccorso che c'era questo dottorino tutto preoccupato e non volevo scontentarlo. Me faseva tanto mal la gola, ho pensato Maria Vergine anderò avanti tutta la vita con la cannuccia. Il dottorino ga dito adesso signora la ricoveriamo e andrà tutto bene. Si faccia coraggio, ga dito il dottorino. Ma mi pensavo: mai più patatine fritte, mai più pizze, mai più cotolette panate. Per colpa di un gnocco e di quella sempia della Maria che voleva solo farsi i fatti miei. Ma anche per colpa mia che non chiudo mai la porta. Come se ero nata in barca.

***

Dopo un'ora vedemmo mia madre uscire, chiudere piano la porta e venirci incontro.
"Porco dìs" sospirò mio padre.
Lei allora tirò su con il naso e ci guardò.
Non piangeva, mia madre.
Rideva.

Quella sera telefonammo ai Nocken.
"Tutto per noi andare bene" urlò mio padre nella cornetta. "Tutto andare sehr gut."

Nessun commento:

Posta un commento