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venerdì, febbraio 09, 2024

I beati anni dei vestiti brutti

Scarpe brutte e vestiti brutti: le Clarks sbagliate, i jeans finti, i maglioni di pannolenci, i piumini 100% sintetici effetto bulbo di Tesla. Di qua una madre bellissima e scontrosa, fantasie geometriche e minigonne, zatteroni con la zeppa di sughero, mèche e tirabaci, una collega con il taglio alla Jane Fonda che passava a prenderla in Vespa. Belle, strane e inafferrabili come due uccellini esotici. Di là un padre che smarmittava allegro sulla Lambretta con i suoi jeans senza marca e la camicia kaki alla Poncharello, o una maglietta nera con l'etichetta "c o b r a" presa in saldo da Bonnes.

Una volta, con la scusa dell'arricchimento culturale, siamo finiti a San Marino anche noi Vittorelli. Al ritorno eravamo tutti accessoriati di Ray-Ban Aviator, con le aste che facevano due giri della morte dietro le orecchie e il galleggiante di madreperla che ci scavava un solco in mezzo agli occhi. Sembravamo una squadra di poliziotti della narcotici.

I finestrini abbassati sul pomeriggio estivo desaturato dalle lenti verde scuro, la sosta canonica in Autogrill. Felici? Ma sì.

C'era qualcuno che in fatto di eleganza stava peggio di noi. Erano gli jugoslavi oltreconfine che venivano di qua a comprare fustini di Dash e abbigliamento a basso costo. Nella parte nord della città c'erano negozietti scadenti che vendevano jeans jugo, magliette jugo, calzature jugo. Per quello stile di recupero avevamo un nome: jugosbriz, un casual di necessità contraddistinto da abbinamenti sbagliati, un rebus di capi completamente fuori sesto.

Perciò noi stupidi starogoriziani con le nostre robette vagamente imitative ci sentivamo decadenti e chic. Ci giudicavamo a vicenda, ma senza malizia. Per esempio l'unica ad avere le Clarks vere era la Ago, che aveva il padre ingegnere. Ma era compensata dalla Zubi, che poteva presentarsi in classe con i sandali da campeggiatore austriaco e i calzettoni di lana, e allora voleva dire che era cominciata la primavera: la Zubi era la nostra rondinella, la nostra pallida primula, la nostra gemma di pruno.

L'immunità al giudizio di stile valeva solo per la contea di Gorizia. Bastava andare in gita a Venezia che subito fiorivano borsette Mandarina Duck e non Maddalina Ciuk, vere polo con il coccodrillo e non con un rettile che aveva perso il tram della selezione naturale. Allora eravamo tutti jugosbriz, anche noi figli di genitori naturalmente belli.

Un giorno mia nonna insieme al panino mi infilò nella borsa anche i soliti Ray Ban di ottone. No, dissi io, pesano troppo. Che tra l'altro guarda che oggi viene piova.

Così se li mise lei, aggiustandosi ben bene le aste dietro le orecchie, e rimase in piedi a guardarmi come un agente della stradale mentre io mi allontanavo con i miei veri Jean's West in una nuvola di Eau Jeune e lucidalabbra alla frutta, sotto un sole che rideva spietato.



mercoledì, febbraio 07, 2024

Vsak patk disko!

Hum, Collio sloveno (Goriška Brda): Hum o Cum sotto l'Austria, faceva parte dell'enclave di Quisca (Kviško o Kojsko) nel comune catastale di San Martino (Sv. Martin o St. Martin) poi divenuto comune di San Martino-Quisca (St. Martin-Quisca, Sv. Martin-Kviško).
1920, Trattato di Rapallo, annessione al Regno d'Italia: nel 1923 Hum diventa Colmo.
1947, Trattato di Parigi, annessione alla Jugoslavia: Hum ridiventa Hum.

A partire dal dopoguerra nella casa della cooperativa di Hum si balla. Negli anni Ottanta è una discoteca e una sala da concerti. 
Aprile 1987: concerto Pankrti. Maggio 1988: concerto Firehose. Novembre 1988: concerto Savage Republic. Che bello vivere, che bella la vita, come cantava il pugile scemo di Vysockij prima di andare K.O.

Mio padre ha sei anni quando lo mandano con suo fratello Pepi in "colonia" in campagna. Mio nonno ha conoscenze nella comunità slava e forse una tessera di qualche tipo, tanto che certi colleghi hanno iniziato a chiamarlo "Vittorellič con la pipa" (la pipa sulla c). Così riesce a procurarsi due posti sulla corriera e ci mette su mio padre e il Pepi. Appena arrivati li mandano tutti nel campo a prendere ciascuno una balla di fieno, cioè il letto su cui dormiranno nella stalla del contadino. Il resto è una lunghissima giornata estiva: marce nei campi, canti patriottici, lavori utili e radici commestibili. Un giorno il Pepi, che ha tre anni più di mio padre, dice: scappo. E scappa. Mio padre, vedendolo correr via tagliando per i prati, già s'immagina suo fratello disperso tra le campagne di questo Paese lontanissimo e misterioso, forse l'Austria, forse il Montenegro, non ricorda quanto tempo ci ha messo la corriera, comunque tanto.

Alla fine della colonia mio padre torna a casa, un vecchietto di sei anni che ha fatto la guerra. Lì trova il Pepi, sazio, lavato e riposato. Solo allora gli spiegano che la colonia stava a Hum, vicino a Quisca. Distanza da Gorizia, Straccis: un'ora e mezzo a piedi, di corsa meno. Il Pepi correva.
Di quel periodo gli restano i canti patriottici, in una lingua a metà tra dialetto sloveno e insalata di consonanti.

A Hum puoi arrivare passando per San Floriano e il Collio goriziano oppure prendendo la strada internazionale del Monte Sabotino/Sabotinska Cesta, cioè la Strada di Osimo, costruita nella prima metà degli anni Ottanta per creare un collegamento diretto tra il collio sloveno e Nova Gorica: il corridoio di circa 1600 metri in cui corre in Italia è costruito in trincea e ha una recinzione alta due metri su entrambi i lati. Secondo il Regolamento sull'uso della Sabotinska cesta, pubblicato il 7 ottobre 1983 in appendice alla Gazzetta ufficiale slovena n. 8 - Trattati internazionali, questo tratto di strada è destinato esclusivamente al traffico di transito ed è vietato sostarvi; non è consentito circolare con veicoli militari; sono vietate le fotografie. 

Per prendere la Strada di Osimo venendo da Salcano svolti a sinistra e poi vai sempre dritto, costeggi il torrente Pevmica/Piumizza e sei a Hum. Subito dopo Quisca e prima di Šmartno/San Martino c'è il monumento di Gonjače ai caduti (315) con annessa torre panoramica che sale a spirale per 23 metri e 144 gradini. Abbastanza per provare una piccola vertigine, ma anche, nelle giornate serene, per vedere il Collio goriziano e sloveno, le Alpi Giulie e le Alpi Carniche, le Dolomiti, la Pianura Friulana, il Carso, la valle del Vipacco, la Selva di Tarnova, il mare.

In corrispondenza della rotonda che porta a Gonjače, sul muro che sta sulla destra, dagli anni Ottanta c'è una grande scritta, scomparsa più volte e più volte rinfrescata, "VSAK PATK DISKO!", "discoteca tutti i venerdì": perché a Hum si ballava, si ballava tutti i venerdì.



 

domenica, dicembre 10, 2023

I ricchi, i poveri

Siamo tutti in cucina davanti alla tv a guardare uno spettacolo musicale, a un certo punto inquadrano l’esterno del teatro dove nel buio illuminato a tratti dai lampioni in mezzo a gente normale con normali facce da impiegati e da operai appaiono tre o quattro giovanotti a cavallo vestiti da hippy o da cowboy o da indiani pellerossa benestanti, e a quel punto mia madre se ne esce con una delle sue, sospira e butta lì con una disapprovazione che deve essere chiara a tutti: “certo ci sono i ricchi e i poveri”. Allora io che pure ho sonno mi faccio vispa e supplico i miei: ancora un poco. Ancora un poco, farfuglia Antonia che comunque già ronfa da un pezzo.

Ancora un poco, imploro. Ma non dico perché, in quanto mi vergogno.

Così mi permettono di stare sveglia fino alla fine delle trasmissioni.

Ma è tutto inutile.

Non era vero che c’erano i Ricchi e Poveri.

Ci rimango male, ma decido di tenerlo per me.

Chiamare qualcuno


Non c’erano solo le splendide dive sfigurate da carambole devastanti, ripescate da un fosso, incollate alla bell’e meglio (la pelle presa là dove è più morbida) e rimesse in circolazione, una ciocca di capelli a nascondere gli orrori.

C’erano anche gli sceneggiati Rai. Antonia gli sceneggiati li spiegava bene, soprattutto dal punto di vista medico-chirurgico.
La moglie del protagonista si ammalava, finiva all’ospedale, giaceva sofferente con una liseuse sulle spalle. Vai vai, gli diceva con un eroico sorriso, vai a lavorare che io sto bene.
Poi si veniva a sapere che, rigorosamente in silenzio e fuori campo, non ce l’aveva fatta.
Di cosa l’avevano operata, nonna?”
“Di pendicite, si inventava, ancora distratta.”
“Ma allora come è morta.”
“E si è piegata, è rotolata giù dal letto” e qui subito si concentrava, lo sguardo fisso sullo schermo “e si è aperto tutto.”
“Tutto, nonna?”
“Tutto.”
“Madonna.”
“Mai piegarsi. Sempre chiamare qualcuno.”

I morti non mancavano mai: come piaceva a noi. Il signor Curie, la madre di David Copperfield, la dolcissima e Dora, la troppo giovane Beth, e poi minatori, tisici con e senza famiglia, cardiopatici, incompresi, eroi, pavidi, tonsillitici.
Poteva succedere nel modo più banale. Ti mettevano i punti, te ne stavi comoda con la tua liseuse sulle spalle, vai vai a lavorare caro, vai mio eroe che io sto bene, poi ti piegavi per raccogliere una matita – mai piegarsi, sempre chiamare qualcuno – e rotolavi nel baratro tra il letto e il comodino. Ti trovavano lì, un sorriso pallido da una parte e un mucchio di budella dall’altra.
Perché è facile che il corpo si svuoti. La pelle è misera cosa, misera cosa è sempre stato il filo da sutura della Rai radiotelevisione italiana.

martedì, febbraio 05, 2019

Il grande Antonius e la piccola Nensi Drev

A un certo punto papà viene travolto dalla passione per la "pesca al sievolo", nella quale si cimenta le domeniche d'inverno in quel bayou monfalconese che sono i canali della bisiacarìa, terra di brume e di fanghi. Lo schema tattico è il seguente: papà si apposta in un luogo selezionato in base a maree, direzione del vento, condizioni meteorologiche, fiuto, tradizione orale, testimonianze più o meno fuorvianti; mamma consuma nella 128 gli schemi liberi della Settimana Engimistica; Antonia e io partiamo in ricognizione.
La tradizionale simbiosi nonna-nipote vorrebbe che la prima approfittasse del contatto con la natura per impartire preziose nozioni di base alla seconda. Fauna, flora, folklore inoffensivo in cui le fate si limitano a pettinarsi, edificanti ricordi d'infanzia.
Noi però ci troviamo in una landa di brume e di fanghi e puntiamo alle macabre scoperte.
Siamo il grande Antonius e la piccola detective Nensi Drev.
– Cosa vedono i miei occhi!
– Orco tocio, un cadavere!
– Attenzione, l'assassino potrebbe non aver abbandonato la scena del crimine.
– Propongo di nasconderci dietro quell'albero.
Inganniamo così l'attesa sgranocchiando biscotti Bucaneve e bevendo succhi Fructal con la cannuccia come insetti panciuti e rumorosi, gli occhi spalancati a scrutare la torbiera.
– Via libera, Antonius!
Antonius pungola il cadavere con un bastone e formula un'ipotesi.
– È un tocco di legno.
Va più o meno sempre così, l'eccitazione evapora tra mucchi di terra e fogliame.
C'è poi la variante Cicuttini. Carlo Cicuttini ha appena tentato di dirottare un aereo a Ronchi per chiedere un riscatto e la liberazione di Freda, è in fuga, è ricercato.
– Cosa vedono i miei occhi!
– Orco tocio, Cicuttini!
– Attenzione, potrebbe essere armato!
– Propongo di nasconderci dietro quell'albero.
E giù Bucaneve e Fructal, mentre papà carica già le canne nel bagagliaio e mamma finisce sospirando il Bartezzaghi.

Cicuttini non è mai Cicuttini, ci sfugge, è di volta in volta un albero, un palo della luce, un'ombra, un addensarsi di foschie, papà appostato immobile tra le canne in conversazione telepatica con i sievoli. Si saprà poi che in quei giorni Cicuttini è già in Spagna a collaborare con i franchisti e a farsi operare le corde vocali con i soldi che gli ha mandato Almirante. Si saprà che Cicuttini è anche quello di Peteano, è lui che ha fatto la telefonata ai carabinieri di Gradisca, "A Peteano c’è una Fiat 500 abbandonata con due fori di pallottola”, e bum. Questo si saprà.
Per ora è solo il 1972, l'anno più lungo della mia infanzia, l'anno della pesca al sievolo, di Antonius e Nensi Drev a caccia di cadaveri e di terroristi neri nel bayou.

giovedì, gennaio 24, 2019

Il Mazariol

È nel languore di un pomeriggio di pioggia, durante una di quelle chiacchierate tra femmine in cui ci confrontiamo sconsolate “il petto” e la Sgorza descrive le elaborate cotonature montate nella sua fantasia parrucchiera come albumi a neve, che mi invento il fratello morto.

Non per cattiveria. Per noia.
Perché sono la sola figlia unica di tutta la classe insieme al Montrani Andrea, che in aula calza le pantofole di lana, vomita in un angolo pallette d’ansia e poi se ne torna a casa con l’autista.
Perché una piccola misteriosa tragedia familiare non si nega a nessuno.
Mai sottovalutare il fascino che i fratelli morti esercitano sulle compagne di classe. Eccole lì, la Raffaella, la Claudia e la Sgorza (in arte Ondina Acconciature), tutte subito a sparare domande. No, mio fratello non era come quello della Franzica Cristina, quello caduto dritto nel limbo senza passare per il via. Il mio era un fratello completo, carne e ossa, viziatino e non simpatico. E poi è morto.
Ma come, come è morto?
Come?

“El xe cascà dae scale.” Entra in cucina Antonia reggendo un vassoio di cacao e frollini. “Dae scale”, ripete.
Tutte zitte, e zitta anch’io che sento arrivare una grossa storia.
“Povero Giancarlo. Scampava da qualche cosa, sicuro. Perché non correva mica come un stupido, Giancarlo. Scampava. Per dopo rompersi l’osso del collo. Lì.” E con il dito indica un punto ai piedi delle scale, nel vestibolo, là dove il marmo delle mattonelle è ingiallito.
“Povero Giancarlo”, butta lì un’ultima volta Antonia. Poi esce dalla cucina e fa per salire le scale maledette.
“Il cacau” dico debolmente io. “Si fredda il cacau.” Ma la Claudia, la Raffaella e la Sgorza tutte dietro Antonia, e poi ferme sullo scalino più basso a guardarla di sotto in su mentre sosta nel punto in cui le scale curvano, e aggrappata al corrimano si gira a metà, con il grugno di quando giochiamo a Rebecca e lei fa la governante: una governante passata per le campagne venete, i fossi e i sassi del Piave, tra rospi e denti di leone.

“Cosa è successo non si sa. Ma mi lo so.”
Silenzio, sguardo periscopico. La Claudia, la Raffaella e la Sgorza a bocca aperta.
“Scampava dal Mazariol.” 
E riprende a salire le scale. La seguiamo tutte nella sua camera, la vediamo chiudere gli scuri, la sentiamo cercare a tentoni l’interruttore, dando manate spazientite sul muro. Quando la luce si accende ce la ritroviamo vicinissima, immobile, le labbra serrate fino a scomparire in una sottile linea retta tra le guance infossate. Che ancora un poco e mi spavento anch’io.

“Io da piccola l’ho visto il Mazariol, correva pei campi come una bestia, guai metter il piede sulla sua orma, ti porta via e sei il suo schiavo morto. Non esiste più mamma, papà o casa. Non esiste. Sei un morto prigioniero del Mazariol e mangi radici e vermi.”
“Che schifus” si lascia sfuggire la Sgorza.
“In eterno” la fulmina Antonia. “Il Mazariol l’ho rivisto qua intorno, anni fa, che veniva su dal buco di viale Virgilio, strisciava su come una bestia. E gli ho detto a Giancarlo di non andare nel buco di viale Virgilio a giocare. Gli ho detto ‘Guai sei vai nel buco che ti prende il Mazariol’.”
“Ma lui era curioso”, butto lì io.
“Era curioso. E quel giorno che è tornato con le scarpe tutte piene di fango ho capito che era andato nel buco e aveva messo il piede nell’orma del Mazariol. E che quando il Mazariol lo prendeva lo trasformava, sicuro.”
“E dopo?” fa la Claudia.
“E dopo bisogna bere il cacau che diventa freddo. Circolare, circolare!” dice Antonia con un gesto da vigile urbano. E noi giù dalle scale. Ma piano piano, non come il povero Giancarlo.

In cucina ce ne restiamo zitte, ognuna presa nei suoi pensieri. Sono assorta anch’io, che mi chiedo quando la storia arriverà alle orecchie della mamma. Perché ormai non è un problema di “se” ma di “quando”, è una storia troppo grossa: la madre annientata dal dolore, la nonna ormai folle che inventa storie di spettri, il padre sempre con la canna da pesca in mano. Menti ottenebrate. Una casa di matti.

“Di questa cosa non si parla, è un segreto tra noi” dico rompendo il silenzio.
“Veramente io in camera di tua nonna ho visto una cosa sotto il letto…” balbetta la Sgorza. “Una roba scura, un’ombra, forse anche si muoveva.”
“Sarà stato il Mazariol” sentenzia Antonia, appoggiata a uno stipite della porta.
La Claudia, la Raffaella e la Sgorza la fissano con gli occhi a palla, mentre gli sbaffi di cacao agli angoli delle labbra disegnano loro finti sorrisi da pagliacci tristi. Quando ci crescerà mai il petto, a noi, mi chiedo osservandole. Quando diventeremo mai “signorine”.

Il pomeriggio scorre via in maniera convenzionale, la Sgorza si offre di farci le acconciature ma non c’è più la spensieratezza di prima, le vedo che tutte e tre allungano il collo per spiare ora il pavimento del vestibolo, ora le scale. Poi se ne vanno, senza altre domande, ma esitando un’ultima volta sulla soglia. “Circolare, circolare” si sente gridare dalla cucina.

Quella sera Antonia mi porta in camera sua. 
“Vien con mi che te presento il Mazariol, amore” fa tutta allegra. Si china accanto al letto, tastando il pavimento.
“Ecco il Mazariol!” dice spingendomi qualcosa contro il petto.
“Che schifus, nonna!”

È un vaso da notte.

giovedì, gennaio 17, 2019

Scarpe

– Si è comprato altre due paia di scarpe.
– A questo punto è una droga.
– Ho fatto l'errore di dirgli che quelle più sportive sono così eleganti che può metterle con qualsiasi cosa.
– E?
– Adesso mi esce in tuta.

martedì, gennaio 15, 2019

Lo Squartatore della Città di G.


Le sedute della mamma dalla parrucchiera di via Brigata Pavia detta La Bionda sono per me occasione di arricchimento culturale. In un angolo del salone improvvisato al pianterreno di una vecchia casa a due piani con cortile – si attende l'apertura della rinnovata sede di viale XX settembre – le clienti della Bionda aspettano il loro turno origliando le conversazioni e pescando secondo gusto e inclinazione da un'appetitosa collezione di riviste e rotocalchi. A quella biblioteca attingo indisturbata anch'io. È lì che scopro la storia di Jack lo Squartatore, assassino di prostitute nelle nebbie di Whitechapel. La parola prostituta, simile a "istituto", accende nella mia mente immagini di camicette bianche, mantelle nere, calze di lana e castigati cardigan. Mi convinco insomma che prostituta voglia dire "educanda" e improvvisamente mi sento un po' educanda anch'io che faccio la seconda elementare, mi si impenna lo spirito di categoria e mi immagino a rientrare in collegio fendendo la notte dopo una visita caritatevole in un orfanotrofio dove ho rifornito di calzerotti di lana bambini neanche tanto belli. A un tratto dal buio spunta la lama mutilatrice di Jack lo Squartatore che...
L'articolo a un certo punto si interrompe perché qualcuno ha avuto la bella trovata di strappare un pezzo di pagina, forse perché il retro riporta stuzzicanti approfondimenti sulla vita di Dalida.

Sento che i prossimi giorni saranno inzuppati di panico, potrebbe esserci un emulo di Jack lo Squartatore che mi aspetta dietro il Convento delle Orsoline; magari è un "biondino insospettabile", quelli sono anni di "biondini insospettabili".
Mentre rincasiamo come si suol dire rimugino, ma la mamma un po' stordita nella sua nuvola di lacca fissaggio forte non ci fa caso. Devo parlarne con qualcuno prima che lo Squartatore esca dalla sua tana, magari su una vetturina sportiva; perché sono quelli sono anni di vetturine sportive.

– Nonna, ho tantissima paura di diventare una prostituta!
Antonia mi lancia uno sguardo distratto e farfuglia qualcosa a proposito di quello sporcaccione di mio nonno e del "benedetto referendum sul divorzio". Ma si vede che non ci mette passione perché ha la mente altrove.
Tra le mani ha un brandello di pagina che contiene tutti ma proprio tutti i saporitissimi dettagli della vita di Dalida.

martedì, settembre 05, 2017

Una cosa che ho fatto quest'estate

Il tema dal titolo “Una cosa che ho fatto quest’estate” lo aprii quell’anno con sintetica franchezza: “Quest’estate con i miei familiari siamo stati sul Lago di Raibl e all’andata io ho gomitato nella vettura di mio papà”.
“Ma dove sta il Lago di Raibl?” si informò poi la Claudia che vantava una passione per la geografia. “Praticamente in Isvizzera” risposi io con un gesto nobile che abbracciava un esteso arco montuoso in cui la Carnia fraternizzava con le Dolomiti e le Alpi Graie, e i laghi erano un unico specchio d’acqua che emergeva e scompariva, addormentandosi furlano e svegliandosi elvetico.

La Svizzera era sinonimo di lungo soggiorno fatto di passeggiate, sedie a sdraio e pranzi al sacco, di albergatori riservati e puntigliosi, di versanti cordiali. Invece noi al Lago di Raibl ci eravamo andati in giornata, partendo all’alba carichi di canne stivaloni e mulinelli per partecipare al Torneo di pesca a coppie “Lui e Lei”. Lui era mio padre, Lei ero io.
Antonia era addetta alla distribuzione delle cotolette impanate, mentre il contributo di mia madre si esauriva in un tifo un po’ scolastico (“Dai dai”, “Tiralo su tiralo su”) che si spegneva alla vista delle esche vive. Io in quanto Lei sapevo maneggiare i lombrichi, sapevo lanciare, sapevo dosare lo strattone, sapevo recuperare. A papà bastava. Papà faceva tutto il resto.
Quel giorno appena scesa dall’auto mi ero innamorata, all’improvviso, con le gambe che ancora mi facevano Giacomo Giacomo. Lui era mio coetaneo, era biondo, indossava una polo a righe rosse e blu ed era il figlio del Pagorani, nostro avversario, acerrimo rivale pescasportivo del padre mio. Naturalmente non ci scambiammo neanche una parola, solo sorrisi ebeti. Io lì, con la canna in una mano e una cotoletta impanata nell’altra, mentre mia madre faceva “Dai dai!” e mio padre bisbigliava “Quando mangia, polso fermo e tac. Polso fermo e tac!”. Lui là, a sorridere abbracciato a un barattolo di vermi.
Vincemmo noi, non so perché. Un buon posto, pasturato bene. Fortuna nel sorteggio. Bilance truccate. Giudici corrotti.
Con il figlio del Pagorani ci salutammo nel parcheggio facendo ciao con la mano in mezzo ai clacson e alle auto in retromarcia, avvolti in una nuvola di polvere, moscerini e freschìn. Così voleva il nostro destino di Montecchi e Capuleti del Lago di Raibl, nel Friuli svizzero. Io però almeno mi tenevo stretta la coppa “Lui e Lei”.
Sulla strada del ritorno lui gomitò in macchina, ma questo me lo raccontò poi mio padre ridendo sotto i baffi.
Nel tema furono naturalmente omessi gli aspetti romantici.
“Mi piace la tua sintesi” commentò la maestra Burziani. “Vomitare, però, con la V.”
“Maestra, a me solo scrivere o dire la V mi fa gomitare!”
“Va bene” disse lei, e con la matita fece un segno morbido come una traccia lieve di rossetto.

giovedì, giugno 08, 2017

Cosa ho fatto ieri sera

C'era questa maestra, la maestra Burziani, che ogni tanto ci buttava il tema "Cosa ho fatto ieri sera". Allora io personalmente la sera:

andavo con mio papà a prendere la mamma all'uscita dal lavoro ma prima ci fermavamo in un baretto di Straccis dove gli amici gli dicevano "I te gà riciamà", "Ti hanno richiamato", per via della camicia kaki stile militare, e mio papà rideva sotto i baffi a ferro di cavallo, poi mi diceva scegli un gelato pìciula e io prendevo sempre la Cristallo, cioè stracciatella in una tazzetta di plastica blu trasparente;

oppure guardavo la tv.

La maestra Burziani accettava di buon grado la storia della coppa Cristallo, se la gustava ogni volta come una bella replica a volte condita da un seguito come la mamma che saliva sull'auto sbagliata o papà che fermava la macchina sul marciapiede, scendeva e poi tornava con un mazzetto di erbe per la frittata, mentre io dicevo "papà ma è legale?", "siamo sicuri che è legale?" e lui diceva "tira giù la testa che c'è la polizia".

Sulla tv la maestra Burziani aveva qualche riserva. Aveva qualche dubbio.
Non è corretto dire ho guardato la tv, diceva. Ho guardato il televisore? No, perché così sembra che hai guardato l'apparecchio spento. (Risate.) Ho guardato la televisione?
La maestra Burziani faceva la faccia pensosa.
Poi sentenziava: ho assistito alla televisione. Ho assistito a un programma televisivo.
Ma la vedevo incerta, e per non darle un dispiacere il tema lo facevo sempre sulla Coppa Cristallo, una storia on the road piena di tappe bellissime e prevedibili, di finestrini abbassati, di profumi di prati annaffiati di fresco e della mamma che saliva sull'auto sbagliata.

Tranne quando c'era la partita.
Allora lì dicevo abbiamo assistito alla partita.
Per la verosimiglianza.
Però ci infilavo la camicia kaki di papà anche se magari a casa stava in canottiera.
Per l'arte.
La maestra Burziani non si è mai lamentata.

sabato, ottobre 18, 2014

L'amore e l'amarezza

– Cos'è quella faccia?
– No niente.
– Dài.
– Ho fatto bollire lo zenzero per marinarlo. L'ho bruciato. Ho bruciato anche il pentolino. Poi ho fatto lo sciroppo con lo zucchero e l'aceto. E ho bruciato anche quello. E il pentolino, tutto annerito. Tuo padre!
– Mamma, e il timer?
– Ma che ci faccio con il timer. Dovevi sentire tuo padre, le urla.
– Immagino.
– Sempre così: due minuti prima è l'amore, e due minuti dopo è l'amarezza del rimprovero.
– Buttati i pentolini?
– Buttati. Neri, erano. Ne-ri.
– Molto fumo in casa?
– Molto fumo.

martedì, giugno 17, 2014

Il borsello

Sms #1: Ciao! Come stai? Noi bene ci si ramena e via. Tu molto lavoro? Il tempo qui

Sms #2: Ma non capisco è uscita una musica come una suoneria ma bella e non c'è nessuno baci baci.

Sms #3: Ora aspetto.

Sms #4: Guarda roba da matti per me era un cell al citofono ma se non lo alzi non puoi sentire. Ti saluto.

Sms #5: Risolto! Era il telefono di tuo padre all'ingresso nel borsello da giorni, io lo ammazzo.

Sms #6: Tanti baci.

sabato, giugno 22, 2013

L'esperimento

– Elio, sei in ritardo di mezz'ora.
– Lo so ciccina, mi scuso.
– Cos'hai combinato.
– Ho fatto un esperimento.
– Che sarebbe?
– Come dimenticare a casa il portafogli e la patente.
– Ha funzionato?
– Benissimo.

giovedì, febbraio 21, 2013

Come Voi ben sapete


Ecco è arrivata! Dobbiamo scegliere come incassare. Tu sei gentile Manuela, papà caro Elio a me ancora niente. Noi bene freddo siamo all'erta per la neve vedremo baci.

martedì, gennaio 22, 2013

Forse

Ciao, come stai? Abbiamo sentito di quella fuga di gas a 130 km, non uscire (forse esagero). Tutto bene, piovuto tutta la notte, finito puzzle ma manca un pezzetto, baci.

martedì, gennaio 15, 2013

Tutto bene

Ciao tutto bene freddo temporale neve ghiacciata di tutto. Da stamattina le reti Rai e La7 sono sparite insomma un caos. Abbiamo le cibarie non ti preoccupare. Tu stai bene? Tuo padre è in cantina: da un armadio grande ne sta facendo uno piccolo. Baci baci.

martedì, dicembre 11, 2012

A costo zero


Mio padre ha la filosofia del costo zero. Nella mia cucina si rompe la cerniera di un'anta? Aspetta che ci penso io, dice. Due giorni dopo l'anta si chiude perfettamente. Elio, cos'è successo all'armadietto del bagno?, dice mia madre. Ho preso una cosina, dice lui. È la filosofia del costo zero. Guarnizioni, viti, cardini, cerniere non si generano dal nulla. Si spostano, migrano, passano da un'orbita casalinga a un'altra.
Perde un po' la guarnizione del rubinetto della vasca, dico al telefono. Ce l'ho io, dice, costo zero. Papà, siamo a Parigi: idraulico polacco, costo cinquanta euro. Peccato, dice lui.

Quando non è occupato ad aggiustare, mio padre progetta, elabora, costruisce. Ama soprattutto il ferro. Cosa non si può fare, con il ferro.

Ma non sempre i pezzi di ferro possono viaggiare da una casa all'altra, smaterializzarsi in una cantina per apparire in un garage. Ed è così che il padre mio decolla per una magica spedizione nel suo regno, la discarica. Si trovano cose molto interessanti, dice, ti vengono le idee. Le idee di mio padre sono la preoccupazione di mia madre. Elio, parla, dice lei. Parla e non pensare, sennò ti vengono le idee.

Alla discarica non si entra così, quando e come si vuole, non si prende il primo pezzo di ferro interessante e firulì firulà. Ci vogliono i sotterfugi, serve il metodo. Mio padre ce l'ha.
– Lei, dove sta andando?
– Buongiorno, sto dando un'occhiata.
– Ma guardi che non si può mica.
– Mi hanno detto che posso.
– Chi gliel'ha detto?
– Il Giulio.
– Quale Giulio?
– Sta qua il pomeriggio.
– Va bene, mi informo.
– Intanto mi interesserebbe questo pezzo qui.
– Va bene, lo prenda.
– Grazie arrivederci.

Dopo un po', diciamo un paio di settimane, mio padre riprende a pensare e a sognare pezzi di ferro. S'impone un altro viaggio. Serve il metodo.
– Lei.
– Buongiorno.
– Guardi che qui non c'è nessun Giulio, sa.
– Mi scusi?
– Ma sì, quello che le ha dato il permesso l'altra volta.
– Io non ho detto Giulio, ho detto Tullio.
– Non mi sta prendendo per mona, vero?
– Come potrei permettermi? Vedrà che il Tullio le conferma tutto. È quello non tanto alto.
– Mi informo.
– Prendo intanto questo pezzettino.

Giulio e Tullio mutano in Fulvio, all'occorrenza. Poi sono bruciati. Ma il progetto a costo zero è ormai realizzato. La prossima volta bisognerà cambiare orario, scomodare Mario e Manlio dal mondo delle idee.
E quando il ferro si riposa c'è pur sempre il legno, materiale duttile e facilmente reperibile. Con esso si costruiscono mensole, cornici, tavolini, poggiapiedi, eleganti fermagli per capelli spesso laccati di rosso, laccati di rosso a costo zero.

Elio, non riesco a trovare la boccetta dello smalto, dice mia madre.
Fammi pensare, dice lui.

sabato, dicembre 01, 2012

La bestia

– Sai la famiglia serba che abita nel nostro condominio?
– No.
– Ma sì, padre, madre, due figli. Hanno una vecchia Opel Corsa. Lui forse fa il camionista, ma non lo so.
– L'hai visto girare con un camion?
– No, lo vengono a prendere. Magari il camion ce l'ha verso Padova.
– Perché verso Padova?
– Perché così immagino io. Lo vengono a prendere ora con la Mercedes, ora con la BMW, insomma con macchine diverse.
– E lo portano a Padova.
– Io penso.
– Va bene.
– Allora poco fa lo incontro in garage. Sta lì con un metro in mano che misura il suo posto auto. Mi dice "scusi, sa". E si vede benissimo che vuole parlare.
– Si vede.
– "Mi dica", dico io. "Prendo le misure" fa lui "Perché sa, signora, io ho un sogno".
– Sentiamo.
– "Ho deciso di comprarmi una bestia" dice. Una bestia, penso io, non vorrà mica parcheggiare un cavallo nel posto auto? Però non voglio mettergli delle idee in testa, e allora dico "Prende un pastore tedesco?".
– E lui?
– Lui mette via il metro tutto contento e fa "Mi compro una Jaguar".
– Una Jaguar!
– Usata, però. Quarantamila euro, dalla Germania. "Perché nuova non me la posso permettere" dice.
– Usata, invece?
– Usata si vede di sì, anche se a dirla tutta è indietro con le rate del condominio.
– Mette via i soldi.
– Dice che lui ha un sogno, e che senza sogni tanto vale morire. Mi ha anche scritto l'indirizzo del sito tedesco.
– Il sito di Jaguar usate.
– "Vero, signora, che senza sogni tanto vale morire?".
– E tu?
– E io: "Certamente".
– Hai fatto bene.
– Adesso ho capito chi legge tutte quelle riviste di donne e motori che trovo accanto ai bidoni della spazzatura.
– Il serbo della Jaguar.
– A volte vedo anche robe pornografiche, secondo me è sempre lui.
– Perché lui sogna.
– Cosa siamo, senza sogni?
– Camionisti a Padova, quello siamo.
– ...
– ...
– Però il suo sogno sporge di trenta centimetri.

venerdì, novembre 02, 2012

I beati anni di Mondale




"L'hai fatto il compito per casa?" mi chiese la Macùz mentre ancora ci dimenavamo per toglierci dalle spalle le cartelle.
"Sì", risposi saltellando.
"E chi è il tuo personaggio vivente preferito?"
"Dimmi prima tu."

Beato chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscere una Macùz Cristina negli anni dell'infanzia.
La Macùz poteva sembrare scontrosa: ma la bocca incline al broncio, la fronte sempre un po' aggrottata e un presagio di peluria sopra il labbro superiore suggerivano una tendenza al rigore più che all'ostilità e promettevano una grazia olivastra e selvatica. Grazie ai miei genitori, amici dei suoi, sapevo che aveva un fratello molto più grande, cestista promettente, per il quale stravedeva e che la viziava alla follia. Stentavo a immaginare una versione domestica e affabile della Macùz intenta a costruire i giardini pensili di Babilonia attingendo a una fonte inesauribile di mattoncini Lego mentre il cestista savio le diceva "Questo mettilo qui" o semplicemente "Qui". Stentavo persino a immaginarla in pigiama. Perché la Macùz vestiva sobriamente, tono su tono, nello stile che mia nonna definiva "Nilde Iotti". Era però informatissima sulle ultime tendenze della moda secondo Burda, che sfogliava golosamente seguendo poi con l'indice i tracciati dei cartamodelli. 

La Macùz squadrava il mio cappotto nuovo e poi mormorava con approvazione: "Hai il maxi". Per poi aggiungere, soddisfatta: "Fantasia avio. Il massimo". Mi aspettava davanti all'ingresso della scuola il giorno del mio compleanno ed esclamava, inarcando le sopracciglia e sgranando gli occhi: "Ti hanno regalato il Taimex!". Era una fortuna avere accanto una Macùz Cristina: perché io lo avevo sempre pronunciato "Tìmex", e i miei lo chiamavano orologio.

"Dimmi prima tu" esitai.
La Macùz piegò all'insù gli angoli della bocca in un sorriso saggio.
"Mondale" disse. "Fritz Mondale."
E annuì in silenzio.
La fissai a bocca aperta. Quella bambina aveva accesso a un tipo di informazioni a me precluso. Quella bambina guardava i dibattiti. Magari guardava persino i programmi dell'accesso.

"E tu?"

E io?

A me piacevano i rapinatori di banche, i Fedayyìn, Alain Delon, Dino Zoff, il comandante Carlos, Bjorn Borg, Nadia Comaneci, l'inventore del maxicappotto. Ma soprattutto i rapinatori di banche e Dino Zoff.

E infatti dissi:
"Mondale. Mondale anch'io."


Ne ottenni un impagabile sguardo di complicità: avremmo fatto strada.

mercoledì, ottobre 10, 2012

La provvisoria adozione dell'infinito



Metti a bollire do chili de patate intere.
Le tiri su, gli levi la buccia e le passi col passaverdura, 
che vien fuori come tanti vermetti. 
Antonia, Ricetta perfetta degli gnocchi perfetti secondo Antonia [incipit].

I Nocken venivano dall’Austria profonda e ogni estate migravano miti verso il mare, dove mostravano al sole dell’Adriatico le loro pelli bianche e squamate, nuotavano con la canottiera e facevano il pieno di lentiggini.
I miei – tranne Antonia – trovavano che fosse un bene socializzare con i popoli di lingua tedesca, considerati portatori di civiltà, cortesia, strudel di mele e berretti di lana di fattura artigianale. La barriera linguistica? Mio padre sapeva come abbatterla: bastava un dizionario tascabile, e mettere tutti i verbi all’infinito.

I Nocken. Josef, padre. Anna, madre. Figli, 3: Marie, Max, Moritz.
Nel mese di agosto alloggiavano in una specie di ostello familiare simile alle case di villeggiatura sovietiche. Lì, mentre i miei prendevano nota della grazia spartana di quelle vacanze, Marie e i suoi amici mi intrattenevano con un gioco di carte fatto di topi finti e di schiaffoni sulle mani. Mi sembrava divertente come una barzelletta in lingua straniera.

Loro ricambiavano facendoci visita all’ultimo piano di un palazzone moderno in quella che era stata battezzata Lignano City, regno di fontane, luci e piano bar in stile rococò texano.
A Gorizia, invece, i Nocken si commuovevano davanti agli gnocchi al ragù di Antonia mentre mio padre snocciolava infiniti.

Giunse il momento di accettare il loro invito: cerimoniosamente espresso in una lettera in inglese, tedesco e italiano semplificato, tanto per stare sul sicuro.

Andare a Wartberg per festeggiare tutti insieme San Nicolò con la K. Inoltrarsi nell’Austria profonda, la culla imperiale ormai dimenticata dei nostri avi (mai arrivati più in là di Jesenice, dove il bisnonno ferroviere era stato confinato per schiamazzi sindacali).
Due notti. A Wartberg. E poi: tornare.

Partimmo una mattina d’inverno, abbandonando sulla soglia di casa un’Antonia imbacuccata e scontenta. Sospettava che al nostro ritorno le avremmo imposto con silenziosa efficienza uno stile di vita fondato sulla zuppa con i crostini e le vacanze fuori stagione.

Subito dopo il confine ci perdemmo. Mio padre pensava che fosse elegante piantare degli umlaut qua e là, e questo complicò la richiesta di indicazioni stradali. In un paesaggio sempre più innevato e spettrale Wartberg divenne di volta in volta Wärtberg, Würtberg, Wörtberg. Mentre si preannunciava il crepuscolo ed era ormai in corso una disperata mutazione in Wartbürg ci ritrovammo per caso nel posto giusto. Appena in tempo, perché dopo una breve democratica riunione di famiglia i Nocken avevano ormai deciso di rivolgersi al commissariato del luogo per denunciare lo smarrimento di una famiglia di italiani. Ben ghe sta, avrebbe detto Antonia, proprio ben ghe sta.

Fu deciso che avrei dormito nella camera di Marie. Che avrei giocato con Marie mentre Max studiava nella stanza accanto e i miei visitavano il moderno borgo con Anna, Josef e Moritz.

La casa era grande, silenziosa e profumata di brodo. Sul mio letto c’era un piumino rosso. Appeso al muro, un manifesto con la pubblicità di una banca che ritraeva due spennacchiati imitatori di Stanlio e Ollio.
A un tratto, senza motivo, mi venne in mente Antonia.

Marie tirò fuori i suoi giocattoli preferiti, le carte con i topi finti, un puzzle da 500 pezzi. Mi presentò l’albero di Natale, mi prestò le sue muffole, mi trascinò in giardino. Costruì un pupazzo di neve. Convocò Max per sondare i motivi della mia malinconia. Io respiravo a fondo l’odore di brodo, guardavo la neve fuori della finestra e inghiottivo le lacrime. Alla fine Marie e Max si arresero e sedettero muti accanto a me, sotto il poster dei finti Stanlio e Ollio, in attesa dell’ora di cena.

In quei giorni i miei visitarono scuole all’avanguardia, conobbero gente gioviale, sdrucciolarono sulle strade del vicinato. Avevano preso a profumare di vino speziato, mentre l’italiano di mio padre si scioglieva come neve fresca nelle giornate di sole sopra lo strato ghiacciato degli infiniti verbali.

L’ultima sera Anna ci annunciò radiosa che avremmo mangiato gli gnocchi. Lo gnocco era uno solo: grande, insipido e affogato in un brodo paglierino. Io pensavo ad Antonia, seduta davanti alla tv a sgranocchiare Ritz o ad allungare con l’acqua il Rosso Antico del mobiletto bar, e venivo travolta da una quieta nostalgia.

Seduta in macchina in attesa di partire, gli occhi socchiusi per tutta quella neve, pensavo al pallore dei Nocken, alla scomparsa delle lentiggini, allo gnocco in brodo, al piumino rosso e al poster sopra il letto.
Gentili creature di terra e di neve, i Nocken erano come una di quelle conchiglie in cui sembra di sentire il rumore del mare e che finiscono su uno scaffale a prendere la polvere finché un giorno d’inverno non le riporti all’orecchio per accorgerti che il mare non si sente più, e forse non si è sentito mai.

Sulla strada del ritorno telefonammo a casa.

***

Per un po' squillò a vuoto. Poi, al terzo tentativo, rispose la zia Maria. Quella che vedemmo uscire dalla cabina telefonica era una brutta imitazione, spettinata e livida, di mia madre.
"Porco dìs" disse mio padre a bassa voce mettendo in moto.

La casa era calda, profumata e tirata a lucido. Solo la cucina era sottosopra come la scena di un delitto. Mio padre raccolse un mestolo abbandonato sul pavimento. Il vapore ancora appannava i vetri.
"Sono pronta, andiamo" disse mia madre. Teneva stretto un borsone pieno di mutande e di camicie da notte. Ai piedi aveva ancora i doposci.

Antonia era parcheggiata al terzo piano, otorinolaringoiatria. Un dottore molto giovane e dall'aria spaurita aveva detto che ci sarebbero stati esami, accertamenti, ma che bisognava farsi coraggio.
"Vado sola" disse mia madre. La vedemmo allontanarsi lungo il corridoio e sparire dietro una porta.
Uscì un'ora dopo.
Piangeva.
"Porco dìs" sospirò mio padre.

Antonia era stesa sul letto, immobile, gli occhi spalancati. Quando vide mia madre le fece cenno di avvicinarsi, serrò le labbra e coprendosi gli occhi con la mano scoppiò in singhiozzi.
"Perché non hai mai detto niente?" chiese mia madre.
"Uiuiuiuiuiui" fu la risposta in falsetto.
"Per tutto questo tempo."
"Il gnocco, Lina" sibilò Antonia. "Il gnocco. Uiuiuiui."
Fu a quel punto che mia madre si accorse che Antonia non piangeva.
Rideva.

***

Dopo che vi ho salutati e ho visto la macchina che spariva dietro la curva ho chiuso il portone e son tornata su per il vialetto, così, senza premura, con le mani nelle tasche della traversa. Nel mentre che passavo vicino alla casa delle Debegnak ho visto le finestre aperte e allora ho pensato che la Maria aveva brusà la frittata e aveva aperto tutto per lasciare andare fuori la spussa, così ho tirato il collo per guardar dentro e infatti ho visto una gran fumera da per tutto, ma la Maria non si vedeva da nessuna parte. Dopo un po' di tirar il collo son tornata a casa. Ho detto adesso faccio le pulizie, adesso faccio profumar tutta la casa, però prima metto su un bel disco. Ho messo su "Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera, è primavera. Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera l'ora dell'amor!". Sebben che era inverno. Adesso faccio profumar tutta la casa, ho detto, mica come la Maria che impussa tutto. E dopo mi faccio un pranzetto squisito. E dopo il pranzetto un bel caffè, perché mi son una gran caffettona. Un caffé e un Mon Chéri. Due. Due Mon Chéri.

Mi me diverto sempre a guardare la Maria che fa i lavori in giardino, in special modo quando sale sui alberi, come quella volta che è cascata dal caco. Ma certe volte la Maria sta dentro casa con la Graziella che fa andare la Singer tutto il giorno e la cagna che dorme. Allora si mette alla finestra a guardarme a mi. In realtà femo finta de far altro, de guardare il giardino. È come la guerra de trincea. Femo il 15-18. Ogni tanto la Maria si allontana, per esempio va a prender un bicchiere d'acqua, e allora anche mi faccio una pausa, e torno magari con una tazza di cacao. E così anche quel giorno ho guardato un poco la Maria, finché ha fatto scuro, e dopo mi son messa a guardare Avventura. Giusto per aspettare l'ora de cena, perché a mi i documentari sui vulcani e gli animali feroci, in special modo il leone che corre dietro alla bestiolina, me fa tanta fame.

L'ultimo giorno mi son alzata presto e ho fatto tutti i vetri e ho passato sui mobili il Fabello. Poi mi messa in poltrona, comoda come un papa. Dopo un po' ho detto: faccio i gnocchi. Per voi. Allora son andata al mercato a comprar le patate e i ovi, e ho detto adesso me li godo proprio 'sti gnocchi. Per voi.
Così mi son fatta un bagno con la schiuma e mi son coperta tutta de borotalco. E dopo son andata in cucina, ho fatto un bel caffè, perché mi son una gran caffettona, e ho messo la traversa pulita coi fioretti blu. Le patate era bone, proprio quelle giuste, né troppo farinose né troppo acquose.

I gnocchi i faceva una bella figura, tutti in fila sul strofinaccio come tante conchigliette. Allora ho fatto bollire l'acqua e li ho buttati dentro. Quando son venuti su ho detto aspetta che ne assaggio uno. Avevo lasciato aperta la porta di casa, e proprio quando ero lì col gnocco bollente che lo facevo saltar nella bocca ho sentito un rumore, mi son girata e ho visto la Maria immobile come una morta, con le man sui fianchi. Ho pensato che la Maria era venuta giù dal caco un'altra volta e aveva battuto la testa e adesso veniva a trovarme a mi. Invece di sputare il gnocco l'ho mandato giù. Maria Vergine. E son cascata per terra.


Ho aperto i occhi al Pronto Soccorso che c'era questo dottorino tutto preoccupato e non volevo scontentarlo. Me faseva tanto mal la gola, ho pensato Maria Vergine anderò avanti tutta la vita con la cannuccia. Il dottorino ga dito adesso signora la ricoveriamo e andrà tutto bene. Si faccia coraggio, ga dito il dottorino. Ma mi pensavo: mai più patatine fritte, mai più pizze, mai più cotolette panate. Per colpa di un gnocco e di quella sempia della Maria che voleva solo farsi i fatti miei. Ma anche per colpa mia che non chiudo mai la porta. Come se ero nata in barca.

***

Dopo un'ora vedemmo mia madre uscire, chiudere piano la porta e venirci incontro.
"Porco dìs" sospirò mio padre.
Lei allora tirò su con il naso e ci guardò.
Non piangeva, mia madre.
Rideva.

Quella sera telefonammo ai Nocken.
"Tutto per noi andare bene" urlò mio padre nella cornetta. "Tutto andare sehr gut."